L'Intervento
 
L’evoluzione della professione di commercialista
La ricerca di un nuovo modello professionale non può prescindere da logiche di integrazione verticali o orizzontali al momento non supportate né dall’ordinamento professionale né da specifiche normative
Tommaso Di Nardo, ODCEC di Napoli
 

L’Italia è il paese del G8 ad aver risentito maggiormente della crisi economica mondiale in atto. Rispetto al 2007 il pil totale è diminuito del 9,1% e quello pro-capite dell’11,5%, mentre la produzione industriale ha perso il 24,6%. Il tasso di disoccupazione è raddoppiato mentre i consumi delle famiglie hanno perso circa il 15% in media. L’accumulazione di capitale si è ridotta al lumicino e le chiusure delle imprese sono salite vertiginosamente. La crisi ha avuto un impatto devastante in tutti i settori, compreso quello della professione di commercialista, che, pur essendo anticiclica rispetto all’andamento congiunturale del mercato, non è stata in grado di contenere il calo del fatturato e la riduzione dei margini come ampiamente dimostrato dalle statistiche reddituali della categoria. La crisi ha impattato sulla professione di commercialista in un momento nel quale il suo percorso evolutivo si trovava alle prese con profondi mutamenti strutturali. La “globalizzazione”, ovvero l’integrazione mondiale dei mercati reali e finanziari, il processo di integrazione europea, culminato nell’introduzione della moneta unica e il cambiamento del paradigma tecnologico, portato dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno mutato in profondità il contesto competitivo nel quale si trovano ad operare le pmi italiane. Ai mutamenti globali, che hanno portato alla nascita di un nuovo paradigma produttivo, si sono associate le difficoltà tipicamente italiane legate alla scarsa competitività del sistema paese, difficoltà che hanno fortemente indebolito il tessuto produttivo lungo l’intera penisola determinando forti processi di ristrutturazione spesso culminati nella chiusura delle aziende e nella perdita di posti di lavoro. Nell’ultimo censimento dell’industria e dei servizi, l’Istat ha mostrato un’immagine del sistema produttivo italiano in cui prevalgono modelli di governance semplificata, caratterizzati da un’elevata concentrazione di quote di proprietà, un controllo a prevalente carattere familiare e una gestione aziendale accentrata. Sono controllate da una persona fisica o da una famiglia quasi i tre quarti delle microimprese e oltre il 60% delle piccole e solo il 31% delle grandi. La gestione manageriale, ovvero le aziende che hanno un manager interno o esterno, è presente nel 5% delle aziende. In generale, il profilo strategico e la performance delle aziende sono fortemente condizionati dall’assetto proprietario e gestionale delle imprese. I limiti e l’arretratezza del sistema imprenditoriale italiano, sin qui sommariamente descritti, hanno rappresentato allo stesso tempo il punto di forza e quello di debolezza della professione di commercialista. L’estrema parcellizzazione del tessuto produttivo e il carattere unifamiliare delle pmi italiane sono sempre stati il punto di forza della professione e sono proprio questi caratteri che nel tempo ne hanno frenato l’evoluzione. Secondo le indagini sulla categoria, gli studi professionali dei commercialisti sono molto numerosi e diffusi in tutta la penisola, ma sono anche molto piccoli e poco organizzati. Le indagini più recenti mostrano una progressiva riduzione degli studi individuali, che non favorisce, però, né l’associazionismo professionale né la costruzione di reti, bensì la pratica della condivisione di studio finalizzata ad abbattere i costi organizzativi ed operativi. La mancata evoluzione, o involuzione secondo alcuni, della professione ha inciso significativamente sulle performance economiche dei professionisti che, complice anche l’aggravarsi e il prolungarsi della crisi economica, sono stati costretti a rivedere i programmi di sviluppo e di riorganizzazione professionale elaborati nella prima metà degli anni duemila. Si tratta di una tendenza, certificata anche dai dati statistici sugli iscritti all’Albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili e dalle indagini statistiche campionarie che li riguardano, svolte dall’IRDCEC negli ultimi anni, che colpisce in modo particolare le fasce più mature della categoria, mentre per coloro che hanno avviato la professione nella seconda metà degli anni duemila al tema dell’involuzione si sostituisce quello dell’estrema difficoltà di investire nell’apertura di un nuovo studio professionale. Le indagini mostrano, ad esempio, come il network professionale e la pratica della collaborazione in rete per sfruttare le economie di specializzazione senza incidere sulla scala produttiva, si è diffusa molto dal 2000 al 2007, per poi subire una pesante battuta d’arresto e una progressiva riduzione in seguito alla crisi. È evidente come i professionisti più in difficoltà siano andati alla ricerca delle economie di scala, tendenza questa che ha interessato soprattutto gli studi di piccola dimensione che erano stati più propensi a sviluppare network in precedenza. Per citare solo alcuni dati, basta considerare che la percentuale di network è prima salita dal 4% del 2000 al 17% del 2003 per poi crollare al 9% del 2013. Gli studi associati, che nel 2000 erano il 31%, nel 2003 erano il 28% e nel 2012 il 22%. Nel frattempo, accanto alla figura dello studio condiviso (21% nel 2012), si è delineata in maniera netta la figura del collaboratore di studio (14% nel 2012). Da questa analisi emerge, dunque, una linea evolutiva che a un certo punto sembra essersi arrestata a causa della crisi economica. In realtà, non sappiamo se le cose stanno realmente così oppure se altri fattori hanno agito nel favorire la mancata evoluzione della professione. Vi sono almeno altri due fattori importanti che hanno condizionato quella linea evolutiva e vanno menzionati pur non essendo ancora chiaro il loro impatto in termini reali. Si tratta della complessità tipica del quadro normativo italiano e dei limiti culturali soggettivi della professione che derivano dal suo assetto istituzionale. Non è questa la sede per affrontare analiticamente tali aspetti, ma nel tracciare il profilo evolutivo della professione essi non possono essere taciuti poiché, come vedremo meglio più avanti, hanno un forte potere limitante. Partiamo dal primo aspetto. La continua legiferazione in materia economica e fiscale e l’adozione di politiche fiscali e amministrative connesse allo sviluppo della regolamentazione europea in tema di mercato comune e attività di impresa o per fronteggiare le conseguenze negative della crisi stessa, hanno generato un eccesso di regolamentazione elevando notevolmente il numero e il costo degli adempimenti che, contrariamente alle tesi più diffuse, peraltro prive di evidenza empirica, non grava interamente sulle imprese, ma tende a ripartirsi tra le imprese e i professionisti e si traduce in una perdita secca di competitività dell’intero sistema economico. Si pensi al progressivo crescere degli adempimenti nell’ambito fiscale e societario che si è tradotto in un aumento della domanda di assistenza e consulenza da parte delle imprese e delle famiglie, alla quale si è dovuto far fronte con un incremento dei costi organizzativi ed operativi dello studio, mentre le tariffe e i ricavi si sono quasi sempre mostrati particolarmente rigidi rispetto alla domanda a detrimento dei margini. Non v’è dubbio che questo aspetto ha rappresentato e rappresenta un ostacolo notevole alla riorganizzazione dell’attività professionale. Secondo alcuni, nei meandri della complessità normativa e dello “sviluppo tecnologico” del sistema fiscale e più in generale degli adempimenti normativi a carico delle imprese e delle attività economiche, che a prima vista sembrerebbero favorire l’attività professionale per via dell’induzione di nuova domanda di assistenza e consulenza, si nasconderebbe il tentativo di “industrializzare” una parte di tale attività facendo in modo che essa possa essere svolta da altri soggetti diversamente organizzati. Non v’è dubbio che il pericolo esista e che sia anche fortemente avvertito dalla categoria e non v’è dubbio, soprattutto, che questo aspetto grava pesantemente sull’evoluzione della professione che, se da un lato fatica a tenere in piedi il modello tradizionale del piccolo studio individuale costruito su una profonda relazione fiduciaria con l’imprenditore, dall’altro non riesce a trovare alternative e si sente sempre più pressato dalla morsa competitiva delle professioni non regolamentate, delle associazioni di categoria e delle società di consulenza. Benché il quadro appaia poco esaltante e carico di problematiche ed incertezze sul futuro della professione, le opportunità però non mancano e, probabilmente, si trovano nascoste da qualche parte proprio nel cuore delle pmi familiari e a gestione unitaria che, come mostrano i dati e le analisi dell’Istat, rappresentano il vero motore dell’economia italiana e di fatto il mercato unico della professione di commercialista. In particolare, se si concentra l’attenzione sulle pmi più dinamiche, con elevato potenziale di crescita, che rappresentano un segmento significativo del settore corporate dell’economia italiana, si avverte la formazione di un nuovo fabbisogno di assistenza e consulenza alla gestione e allo sviluppo dell’azienda che il tradizionale studio impostato prevalentemente sulla consulenza contabile e fiscale non è in grado di soddisfare. Su questa frontiera si delinea un’evoluzione particolarmente interessante della professione di commercialista che solo recentemente è diventata oggetto di analisi e indagini sulla categoria. Nel mondo globale fortemente interconnesso, l’emergere di nuovi modelli produttivi, di cui si è già detto, sta lentamente demolendo il mito della grande impresa e della produzione su larga scala per sostituirlo con i sistemi produttivi di pmi non più legati necessariamente al distretto industriale, ma reinseriti nelle filiere produttive diventate ormai globali. In questo modo, le pmi riconquistano la scena economica e produttiva mondiale e diventano le nuove protagoniste della crescita e dello sviluppo. Ciò che cambia profondamente, però, è la gestione delle pmi che, costrette a fronteggiare una maggiore incertezza sia sul piano strategico che operativo, si trovano ad avere bisogno di una consulenza aziendale specifica. Da qui nasce quella nuova domanda di assistenza a maggiore contenuto di valore aggiunto che i commercialisti hanno la possibilità di intercettare immediatamente, essendo i primi fiduciari dell’imprenditore. Non sappiamo ancora se da questa evoluzione possa nascere una vera e propria specializzazione professionale oppure se l’offerta è in grado di adeguarsi nell’ambito dei tradizionali modelli di studio. Le analisi a disposizione sono ancora scarse e poco strutturate per offrire risposte significative in tal senso, ma è evidente che accanto alla figura del commercialista fiscalista si va delineando quella del commercialista aziendalista, cioè di un professionista in grado di affiancare l’imprenditore nella gestione strategica e operativa e pertanto in grado di svolgere, dall’esterno, determinate funzioni manageriali a supporto della gestione e dello sviluppo delle pmi. Se questa possa essere l’evoluzione naturale della professione di commercialista o se si tratta di una specializzazione riservata a quegli studi che decidono di investire risorse specifiche in questa direzione è ancora presto per dirlo, ma ci sembra opportuno che la categoria si interroghi a fondo su questa opportunità e scelga soluzioni adatte a valorizzare le competenze e il ruolo dei professionisti che dedicano gran parte del proprio tempo a seguire le sorti delle imprese loro clienti. Le analisi disponibili sul tema, si vedano ad esempio i risultati dell’Indagine statistica nazionale 2012 dell’Irdcec, rilevano una forte attenzione da parte della categoria rispetto ad un’evoluzione della professione nel senso della consulenza aziendale, del controllo di gestione e della consulenza direzionale, ma allo stesso tempo evidenziano una forte resistenza, sia sul piano culturale che operativo, ad evolvere in tal senso. E qui veniamo al secondo aspetto problematico sopra richiamato che esercita un potere fortemente condizionante sull’evoluzione della professione, ovvero i limiti culturali soggettivi che derivano dal modello istituzionale della professione stessa. Le analisi a cui ci riferiamo sono analisi statistiche campionarie e non indagini empiriche o studi di caso per cui non sono in grado di descrivere in dettaglio i processi in atto, ma ciò che emerge con chiarezza e assoluta evidenza è la scarsa propensione alla specializzazione verticale dei singoli studi che, al di là del posizionamento dei singoli professionisti, svolgono quasi tutti la cosiddetta “attività di base” rappresentata dall’assistenza e consulenza continuativa a clienti stabili in materia contabile e fiscale. I dati dell’indagine 2012 coincidono perfettamente con quelli della prima indagine statistica nazionale del 2000 che delinearono i contorni di una professione allora definita “compatta e tradizionalista” perché saldamente ancorata al modello tracciato dall’ordinamento professionale del 1953 e alla figura del commercialista così come si era venuta delineando negli anni settanta in seguito alla prima grande riforma fiscale, la riforma Visentini del 1971, che ha certamente svolto un ruolo determinante nello sviluppo della professione e, in particolare, nello sviluppo di quello che ancora oggi è considerato il core business, rappresentato dalla consulenza in materia contabile e fiscale. I due dati, certamente contrastanti, della forte aspettativa rispetto all’evoluzione della professione nel senso della consulenza aziendale e del forte ancoraggio alla consulenza contabile e fiscale dell’intera categoria, contengono indicazioni molto importanti per il futuro della professione, poiché esprimono la tendenza a voler ampliare le proprie competenze e la propria offerta di consulenza, stimolati in tal senso dalle imprese clienti, ma senza voler abbandonare il modello tradizionale che ha retto la professione negli ultimi quaranta anni. Si tratta di indicazioni fondamentali per chi è tenuto ad adottare le policy di categoria, che, per quanto possano essere ulteriormente analizzate ed affinate, allo stadio attuale, indicano in maniera molto chiara la ricerca di un nuovo modello professionale che non può prescindere da logiche di integrazione verticali o orizzontali al momento non supportate né dall’ordinamento professionale né da specifiche normative, considerato ad esempio anche la finora fallimentare normativa in tema di società tra professionisti, né da specifici progetti di categoria. Sin qui ci si è soffermati in modo particolare sull’evoluzione della professione in senso aziendalista e non si è detto nulla sull’altro versante del percorso evolutivo, quello che vede il commercialista proporsi sempre più nel ruolo di professionista sussidiario della Pubblica amministrazione, esaltando così le competenze dell’area giuridica che insieme a quella economico-aziendale rappresenta il principale complemento all’area fiscale. Non v’è dubbio che negli ultimi anni l’attenzione della categoria su questo versante è stata notevole e che, come dimostrano gli stessi dati delle indagini statistiche, i commercialisti presidiano il campo con grande interesse e partecipazione. È chiaro, però, che si tratta di un’area a forte valenza specialistica che non è in grado di coinvolgere l’intera categoria. Secondo i dati dell’indagine 2012 dell’Irdcec già richiamata, ad esempio, solo il 23% dei commercialisti ha una formazione specialistica nell’area del diritto fallimentare e la stessa percentuale interessa coloro che individuano le procedure concorsuali come la propria area di specializzazione, mentre solo il 19% è impegnato come ausiliario del giudice in attività relative alle procedure concorsuali, giudiziarie e amministrative nella qualità di curatore, commissario giudiziale e liquidatore. Nelle precedenti indagini statistiche, quella del 2000 e quella del 2003, la percentuale di commercialisti che dichiaravano di svolgere incarichi giudiziali era più elevata e oscillava tra il 30 e il 35%. I dati, purtroppo, non sono direttamente comparabili, sia perché all’epoca il campione era costituito esclusivamente da dottori commercialisti sia perché i questionari e le domande differiscono significativamente. Sta di fatto che ulteriori indagini più recenti sembrano confermare il dato del 2012 che vede solo un commercialista su cinque impegnato nell’ “area tribunale”. Per completare il quadro delle possibili “specializzazioni” della professione, è interessante riportare gli altri dati dell’indagine 2012, in particolare quelli riferiti ai professionisti che si occupano di esecuzioni mobiliari e immobiliari (6%) o che sono mediatori (9%). A questi bisogna aggiungere, naturalmente, i professionisti che svolgono l’attività di sindaco e/o revisione legale dei conti (48%), i revisori negli enti pubblici territoriali (17%), il contenzioso tributario (56%), la consulenza contrattuale (44%), la consulenza societaria (56%), la consulenza aziendale (29%), la consulenza del lavoro (20%), la finanza agevolata (19%), l’amministrazione di aziende (20%), l’amministrazione di patrimoni e beni (44%), i bilanci sociali (18%), l’amministrazione del personale (14%), le perizie, le valutazioni e i pareri (49%), le operazioni straordinarie (40%). Sono alcune delle attività di funzione e/o di consulenza specialistica che la categoria presidia con elevata competenza e riconoscimento assoluto da parte del mercato e che rappresentano una prima chiara matrice su cui impostare il tema delle specializzazioni professionali, certamente centrale nel futuro della professione di commercialista.  

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N. 3 - Marzo 2014
 
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