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Il futuro è nella multidisciplinarietà
Per l’ex presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, Giuseppe Bernoni, nell’era della specializzazione non c’è più spazio per il professionista ‘tuttologo’
A cura della Redazione
 

“La costituzione di studi associati fra professionisti si prospetta come una necessità inderogabile in un prossimo futuro. Per rispondere alle più ampie e diversificate necessità aziendali. Per offrire la propria consulenza in ogni momento e luogo. Per meglio ripartire i rischi professionali derivanti dalla perdita di clientela. Per il mantenimento di una continua ed adeguata efficienza dello studio, durante l’intero periodo annuale, grazie anche ad una organica distribuzione delle ferie, alla rotazione del personale, ecc”. È quanto scriveva, insieme ad altri colleghi, un giovanissimo Giuseppe Bernoni negli anni Settanta sulla rivista dell’Ordine dei dottori commercialisti di Milano. Da allora, nel Paese come nella professione, molte cose sono cambiate. Ma non la scarsa propensione dei commercialisti a lavorare in equipe. Come dimostra lo statico 25% di iscritti all’Ordine che esercita la professione in uno studio associato. Nel frattempo Bernoni ha festeggiato i suoi primi cinquant’anni di attività professionale all’interno di uno studio (oggi Bernoni Grant Thornton) che nel tempo è andato crescendo. E dopo aver raccontato nel 2011 all’editore Mursia la sua “Vita per la professione” di recente è tornato nelle librerie con un nuovo testo dal titolo “Professionisti&Studi. Associarsi per competere”. 

Cominciamo dall’inizio. Perché i commercialisti preferiscono lo studio individuale?
Un vizio degli italiani quello di voler fare tutto da soli. Che può andare anche bene se non fosse che oggi la legislazione fiscale, societaria e tributaria è diventata così ampia da rendere necessaria una evoluzione dell’organizzazione dello studio.

Ci spieghi meglio…
Il progresso tecnologico, la globalizzazione e i continui mutamenti negli scenari economici di riferimento rendono la nostra era sempre più complessa. La visione tradizionale del commercialista è destinata a cedere il passo. Considerata l’ampiezza degli ambiti di intervento e la talvolta schizofrenica successione di modifiche normative, la figura del professionista “tuttologo” sembra avere, nel lungo periodo, scarse possibilità di sopravvivenza in un contesto che richiede competenze oltremodo specialistiche. I clienti che oggi si rivolgono ad uno studio presentano l’esigenza di avere risposte in tempi brevi. L’imprenditore che necessita di un riscontro quasi immediato sceglierà un altro studio, già specializzato su quella materia.

Qual è secondo lei la formula vincente per uno studio?
La strategia premiante è riuscire a realizzare uno studio associato che metta insieme professionisti ciascuno in possesso di skills uniche e di alta qualità su determinate materie. Anche attraverso l’unione di professionalità eterogenee.

Quindi realtà multidisciplinari?
Esatto. Una firm che può offrire al cliente i servizi di commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro di alto profilo sarà certamente in grado di rispondere alle esigenze di tutti i tipi di impresa, dalla pmi familiare organizzata intorno alla figura dell’imprenditore-titolare alla grande multinazionale. Allo stesso modo, poiché i soci di uno studio passano buona parte del proprio tempo nelle attività “commerciali”, nel monitoraggio dei risultati e nella gestione dell’organizzazione, è indispensabile che anche i collaboratori siano estremamente qualificati e operativi.

Come si può raggiungere tale scopo?
In due modi. Uno è quello di acquisire professionisti già “maturi” provenienti da altre realtà. Soluzione che in determinate circostanze si rivela l’unica possibile, in quanto più immediata (per esempio per far fronte a un mandato di particolare rilevanza su un certo tipo di operazione). La seconda strada è quella di crescere “in casa” i professionisti di domani. I giovani che escono dall’università, inclusi i più capaci, tendono ad avere una buona preparazione teorica, ma che ben difficilmente si rivela sufficiente per operare in autonomia all’interno di uno studio. Il processo di training è senz’altro lungo e difficile, perché presuppone, oltre che il massimo impegno del giovane professionista, anche il “tutoraggio” del manager o del partner di riferimento. Questo percorso, teoricamente ineccepibile, si rivela talvolta piuttosto arduo da realizzare, a causa dei numerosi impegni dei professionisti più anziani. Tuttavia, i soci lungimiranti non possono che accorgersi di come la crescita dei più giovani, assisterli in fase di preparazione dell’esame di abilitazione e in seguito coadiuvarli nella risoluzione dei problemi, per quanto attività time consuming nell’immediato, costituiscano un grande investimento per il futuro.

Meglio la Società tra professionisti o lo studio associato?
Nel valutare quale, fra Società tra professionisti e studio associato, possa rappresentare la scelta migliore intervengono senza dubbio variabili di tipo civilistico. Queste, in termini di costi e adempimenti, sembrano premiare lo studio associato. A differenza delle Società tra professionisti, infatti, quest’ultimo non necessita di un atto costitutivo e della conseguente iscrizione nel Registro delle imprese. L’eventuale atto notarile relativo all’associazione si rende necessario solo per imputare gli utili dell’associazione in misura diversa rispetto alla ripartizione “naturale” legata al numero di soggetti. Anche dal punto di vista della governance lo studio associato si presenta come più snello. Non essendo una società vera e propria, non è necessario nominare gli amministratori e gli organi di controllo. Circostanza che, specie negli studi associati di medio–grandi dimensioni, si verifica internamente, attraverso la previsione di una “catena di comando” in grado sia di impartire le direttive per il funzionamento quotidiano dello studio, sia di svolgere l’attività di monitoraggio operativo ed economico. Si tratta però di una scelta puramente gestionale, non dettata da obblighi normativi. Ai fini dell’avvio dell’attività in forma associata, tuttavia, è indispensabile un apporto iniziale di mezzi materiali e di denaro per sostenere le spese di start-up (si pensi ai locali adibiti a studio, alle infrastrutture informatiche, ai software, ai telefoni, alla cancelleria, ecc.). Nelle società di capitali tra professionisti, invece, il capitale minimo richiesto in fase di costituzione e per tutta la durata della società è previsto da apposite disposizioni. Inoltre, la scelta è inevitabilmente influenzata (al momento della pubblicazione di questo giornale) anche dal regime di incertezza sul trattamento fiscale dei redditi prodotti dalle Società tra professionisti. 

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N. 7 - Luglio 2013
 
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